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NUMERO 1, Gennaio 2011

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Cerca fra i nostri servizi, usa parole italiane come ad es: "vino", "moda"... Appariranno  pagine con la cronaca dell'evento italiano in Uk che cercavi.

 

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DONNE D’ITALIA

 
Cecilia Laschi
Un’italiana ai vertici della robotica
 

Un umanoide su una barca a vela. Lei lo chiama il suo “sogno”. Per di più “inutile”. Però se a dirlo è Cecilia Laschi si può ben pensare che diventerà un progetto finanziato a livello internazionale e che segnerà un ulteriore passo in avanti verso l’ultima frontiera della biorobotica, la collaborazione “intelligente” delle macchine antropomorfe con gli uomini. E infatti, dietro a quell’“inutile”, questa sorridente toscana che il mondo ci invidia mette quel “ma…” che tutti gli scienziati di razza si pongono:

“Inutile, certo, ma dimostrerebbe che la robotica avrebbe raggiunto i traguardi che credo si debba porre in questo momento”. È lo stesso “ma” che, a neanche 20 anni dalla laurea in informatica a Pisa e ad un decennio dal dottorato in robotica a Genova, l’ha portata, a 42 anni, ai vertici della robotica mondiale, unica donna (insieme ad una statunitense) a figurare, da gennaio e per i prossimi tre anni, nel sestetto della commissione consultiva della Iee Robotics and Automation Society, a fianco del giapponese

Toshio Fukuda, considerato il “guru” mondiale dell’automatismo. I 6mila membri dell’associazione planetaria degli ingegneri elettronici hanno scelto il suo nome per rappresentare l’Europa. Ed è lo stesso “ma” con cui ha progettato il robot spazzino Dustclean che da giugno pulisce le strade medievali della pisana Peccioli ed è stato la star dell’Expo di Shangai. Ma anche I-Droid, il primo androide intelligente a costo contenuto e venduto in dispense, che ha fatto impazzire i giapponesi ed è stato venduto in oltre 100mila esemplari in nove Paesi del mondo. Quello stesso “ma” le ha permesso di immaginare ed ora realizzare Octopus, il primo robot interamente molle al mondo, finanziato per 10 milioni di dollari da Bruxelles. Tutto realizzato senza “fughe” all’estero ma comunque lavorando nei laboratori di quello che può definirsi il “Mit” italiano - la Scuola Superiore Sant'Anna - della quale dal 2006 Cecilia Laschi è professore associato di Bioingegneria industriale. Nata a Piombino, cresciuta a Follonica, oggi la ricercatrice abita a Livorno. Ed è proprio a Livorno, nell’acquario del Centro di Ricerca per le Tecnologie del Mare e la Robotica Marina, sede distaccata dal Polo di Pontedera, che Cecilia lavora alla realizzazione di robot marini. A fare da modello vivente un vero e proprio polpo chiamato Alfa. Copiando il movimento di questo cefalopode il team, supervisionato da Cecilia Laschi, sta ponendo le basi dello sviluppo di robot ispirati a piante e animali. Il progetto Octopus è stato ammesso ai finanziamenti europei con il punteggio di 14 su 15 e selezionato tra quelli più innovativi.

Il robot-polipo è in grado di infilarsi in anfratti marini dove neanche un sub arriverebbe e apre scenari ancora più avanzati: “Nell’applicazione di modelli neuroscientifici su robot umanoidi - spiega Laschi - mi scontravo con le limitazioni della struttura fisica dei robot, tipicamente basata su strutture rigide, mentre i sistemi biologici sono caratterizzati da cedevolezza e adattabilità”. Ecco quindi l’entrata in scena della biologa marina Barbara Mazzolai: “Il polpo ha rappresentato per entrambe la sfida ideale per realizzare robot di nuova generazione”. Mazzolai è un’altra delle “regine” della Superiore di Pisa. Coetanea di Laschi, figura anche al suo fianco tra gli inventori dell’altro gioiello della robotica pisana: i DustBot, i robot-netturbini.

 
La Baronessa Bandiera
Essere madre di due eroi
 

Una copia ingiallita del ‘Corriere dei Piccoli’, Anni Quaranta. La sfoglia una professoressa di scuola media alla ricerca di storie risorgimentali che possano incuriosire i suoi studenti. Si ricorda che, da bambina, l’amato settimanale aveva una rubrica intitolata “Vite di donne all’ombra dei grandi”. Erano soprattutto ritratti di madri: c’era quella di Garibaldi, quella di Napoleone. Ma anche quella dei fratelli Emilio ed Attilio Bandiera. Di lei, Anna Maria Marsich, veniva narrato solo un episodio: quello che la vede raggiungere a Corfù i figli esuli e ribelli per implorarli di ritornare a Venezia insieme a lei, per pentirsi dei loro piani rivoluzionari e ricevere il promesso perdono imperiale, tornando a servire fedelmente sotto l’aquila austriaca della Imperial Regia Veneta Marina e a mantenere loro, ufficiali e baroni, tutti i privilegi della propria casta. Ma il pianto della madre non riuscirà ad infrangere la fede nell’“ora e sempre” mazziniano del 38enne Emilio, alfiere di fregata e del 29enne Attilio, alfiere di vascello. Si metteranno a capo della temeraria spedizione per sollevare il popolo del Regno delle due Sicilie, 12 anni prima di Garibaldi. Ma non in mille, in 19. E le patriottiche parole di Attilio Bandiera – “è fede nostra giovare l’Italica libertà meglio morti che vivi” - si avvereranno davanti al plotone di esecuzione, il 25 luglio 1848. Quello che emerge, così, è un drammatico conflitto privato sullo sfondo di quello epocale dell’Italia risorgimentale. A rispecchiare il tormento di tanti italiani dell’epoca, divisi tra reazionari e rivoluzionari.

In Thea Magliozzi, la professoressa di Gaeta che ricorda l’antica lettura sul ‘Corriere dei Piccoli’, il pensiero di quella madre solleva crescenti interrogativi che la porteranno a pubblicare nel 2006 l’unico libro dedicato a questa figura, rimasta fino ad allora misconosciuta, “La Baronessa. La madre dei fratelli Bandiera”. La genesi del libro è affascinante perché, improvvisamente, durante il lavoro di stesura, l’autrice scoprirà addirittura di essere una lontana parentela della sua eroina. Scoprendo anche una pagina storica ignorata dell’avventura dei fratelli Bandiera: il viaggio in incognito che la baronessa fece a Cosenza, dove i figli erano stati arrestati dopo il fallito moto in C a l a b r i a , per cercare di salvarli dalla condanna a morte. “La scoperta del v i a g g i o s e g r e t o della baronessa fu del tutto casuale: merito di mia madre che ascoltava volentieri qualche pagina man mano che procedevo nel mio lavoro. Fu quando le lessi una breve lettera di Attilio indirizzata allo zio Raffaele Del Giudice, un ufficiale borbonico.

A quel nome lei m’interruppe esclamando: ‘Era un amico dei bisnonni Vendittis! Sua moglie si chiamava Caterina. Abitavano a Napoli e venivano spesso a Gaeta. Una volta venne ospite anche una sorella di Caterina che viveva a Venezia. Poveretta, lei aveva delle grosse preoccupazioni per i figli…’”. Era quindi lei quella “poveretta”, la baronessa Marsich, che aveva fatto tappa a Napoli per ottenere, inutilmente, la grazia dalla Regina Marina Teresa, moglie di Ferdinando II di Borbone. E quando inizia a scrivere il suo libro, la Magliozzi parte dal racconto del disperato viaggio della nobildonna veneziana verso l’isola greca di Corfù, decisa a riportare indietro i figli suoi e del conte Francesco, ammiraglio comandante della flotta austriaca nel Mediterraneo, celebre per avere catturato un bastimento carico di profughi. Di quel drammatico incontro Thea Magliozzi può farsi un’idea leggendo una lettera di Emilio a Mazzini: “Invano io le dico che il dovere mi comanda di restar qui; che la patria mi è desiderata, ma che, allorquando mi muoverò per rivederla, non sarà per andarmene a vivere di ignominiosa vita, ma a morire di gloriosa morte; che il salvacondotto mio in Italia sta ormai sulla punta della mia spada; che nessuna affezione mi potrà strappare dall'insegna che ho abbracciato, e che l'insegna d'un re si può abbandonare, quella della patria mai. Mia madre, agitata, accecata dalla passione non m'intende, mi chiama un empio, uno snaturato, un assassino; e le sue lagrime mi straziano il cuore.

I suoi rimproveri, quantunque non meritati, sono come punte di un pugnale; ma la desolazione non mi toglie il senno; io so che quelle lacrime e quello sdegno spettano ai tiranni; però, se prima non ero animato che dal solo amor di patria, ora è potente l'odio che provo contro i despoti usurpatori, che per l'infame ambizione di regnare sull'altrui patrie condannano le  famiglie a siffatti orrori”. Riannodando i sottili fili di una esistenza attraverso una serie di lettere, la scrittrice ricostruisce così l’“enorme conflitto” che attanaglia Anna Maria Marsich, che sa che “queste ribellioni sono destinate a finire nel nulla. O nell'esilio”. E, per la prima volta, apre una pagina inedita nella storia della tragica impresa dei figli, scia di sangue dello sconfitto moto calabrese del marzo 1844. Quello della madre che, prima in pena per l’editto di comparizione austriaco, poi appresa della loro cattura in Calabria, corre a Cosenza solo in tempo per vederli condotti alla fucilazione, il 25 luglio 1844.

 

Mina
La Barbra Streisand italiana
 

A marzo saranno settantuno candeline per lei, e nessun problema - grazie alla sua capacità pneumatica - spegnerle con il soffio più intonato che conosciamo. Dal 1978 però è un soffio invisibile, quello della nostra Salinger (il gran ritirato della letteratura, lo schivo della propria immagine, di cui circola sì e no una foto). Ne contavamo un altro come lui fino a qualche anno fa nella nostra penisola canterina, ed era Battisti. Le ragioni di questi abbandoni della scena sono per lo più personali, e dunque impenetrabili, ma regalano un’involontaria aura al ritirato, non priva di speculazioni: si va dal musicista del “da quando ci sei tu tutto il resto non c’è più”, additato come uomo di destra, persino finanziatore di gruppi neofascisti (cosa del tutto smentita in una della rare interviste rilasciate a Renato Marengo, in cui Battisti sconfessa di essere di destra, e precisa la sua totale indifferenza alla politica), alle varie dicerie sulla Mina nazionale, ingrassata dopo un aborto, dopo una bronchite malcurata, o sparita per una montante intolleranza verso i paparazzi, che l’avrebbero costretta a riparare in Svizzera. Non conta la verità quando si ha a che fare col mito, e quando come Mina si è mito, non si appartiene più alla grammatica del rotocalco, ma alla storia. Come Lucio, come Salinger; il mito parla, per così dire, solo con la sua voce. Un grandioso privilegio per la tigre di Cremona (è il soprannome che le dà l’amica Natalia Aspesi e che tutti hanno adottato, Mina era un bisillabo troppo riduttivo, evidentemente), parlare solo con la voce. Poteva venir su una cantante d’impostazione classica, se avesse seguito l’indicazioni di nonna Amelia, che da brava lirica le suggerì lo studio del pianoforte, ma la cosa non attecchì: Mina preferiva la Bussola di Marina di Pietrasanta, luogo sacro per la canzonetta di quei primi anni Sessanta, che avrebbe cambiato il corso della forma-canzone italiana successiva.

E poi ognuno ricorda i famigerati duetti a cui ha dato vita sul palco di Studio uno, di Teatro 10, e gli indimenticabili binomi: Mina-Battisti, Mina-Gaber, e poi Mina-Celentano, ma prima Mina e Sordi, Mina e Manfredi, ed un crescendo di successo artistico accompagnato dal potente amplificatore della tv, che pure montava su sé stessa, e che la porta ad essere una star internazionale. E le Parole Parole Parole di Alberto Lupo, e il Se telefonando di Morricone e Costanzo, e poi? E poi il buio, da quel 1978 di cui sopra. Resta il fatto che uno dice Italia e legge: pizza, amore e Mina. Una presenza-assenza a cui da anni la gente si rivolge non per farle i complimenti o per chiederle “quando torni?”, ma per vedere su ‘Vanity Fair’ in che modo risponde, come fanno i direttori, gli scrittori, i filosofi, e i giornalisti, sulle varie problematiche della vita. Un modo per affermare morettianamente che mi si nota di più se non vengo. Anche perché la festa lei se la deve essere tirata sempre dietro, portandosela lì dove si nasconde, restando ben in mostra.

 
Antonietta De Pace
Passionaria del profondo sud
 

Rinchiusa in uno stanzino di un metro quadrato. Senza potersi sdraiare, lavarsi, uscire davanti al ghigno del commissario Campagna che la costringe a lunghi interrogatori per farle confessare di essere una sovversiva. Ma lei, Antonietta De Pace, sa che la polizia borbonica non ha prove. I due proclami di Mazzini che si portava in petto li ha appallottolati e mangiati quando, il 26 agosto 1855, ha visto i gendarmi entrare in casa di Caterina Valentino, per arrestarla. Loro sospettano che sia una delle tante affiliate della Giovine Italia. Invece lei ne è, nel Meridione, uno degli ingranaggi più importanti. Da quando il fratello di Caterina, il mazziniano Epaminonda Valentino, cognato di Antonietta, è morto in carcere dopo la repressione borbonica dei moti del ’48, lei ha preso in mano tutta la rete cospirativa che lui aveva intessuto, da oltre un decennio, tra il Salento e Napoli. A dare battaglia al suo fianco tutta la mente pensante della Giovine Italia pugliese che, solo un decennio prima, la guardava con sospetto quando il cognato Epaminonda la portava alle loro riunioni segrete. Antonietta sentiva di potere combattere la sua battaglia contro le ingiustizie sociali la cui necessità si era rivelata in lei a 13 anni, quando aveva conosciuto la miseria dei contadini di Ugento. Antonietta vive da vicino la disperazione di questi derelitti, inizia a studiare testi di legge, matura una coscienza sociale che ora, nelle riunioni segrete di Epaminonda, si innesta sulla sua tempra rivoluzionaria, della quale darà quindi prova, a 30 anni, sulle barricate di Napoli, accanto ai compagni salentini, che negli anni hanno imparato a conoscere la vera natura, indomita e battagliera, che si cela dietro il dolce volto della gran dama. Malgrado abbia visto come l’artiglieria borbonica abbia avuto la meglio in solo un’ora sui rivoltosi delle barricate di via Toledo, Antonietta non si mostrerà affatto abbattuta. E subito tornerà in Puglia, comincerà per sollevare la rivolta che scoppierà poche settimane in terra d’Otranto, organizzando in prima persona il circolo patriottico di Lecce con il cognato Epaminonda, Bonaventura ed il duca Sigismondo Castromediano. Ma anche qui calerà presto il feroce pugno della repressione. Solo un anno dopo il cognato morirà, a 38 anni, tra le braccia di Castromediano, in una fetida cella del carcere leccese dell'Udienza, invocando aria, soffocato da una crisi cardiaca. Anche in questo frangente Antonietta, sfuggita all’ondata di arresti nel Salento, non si dà per vinta. Fingendo relazioni sentimentali e familiari, riesce ad entrare nel carcere di Procida per ricevere, insieme alla biancheria di detenuti conniventi, preziose informazioni dai compagni incarcerati.

Antonietta scrive messaggi cifrati. Gli stessi che la polizia borbonica, all’epoca del suo arresto, nel torrido agosto del 1855, trova nella sua cella nel convento di San Paolo, dove figura come insospettabile corista. Viene quindi rinchiusa nel carcere di S. Maria ad Agnone. Ne esce 46 volte per deporre al processo che la vede imputata per cospirazione repubblicana. Un processo che fa epoca. Quando l’accusa chiese la condanna a morte il popolo gridò all’infamia, le potenze estere ritirarono i loro ambasciatori per protesta, lasciando a Napoli solo agenti consolari. Tre giurati su sei si pronunciarono contro la condanna e Antonietta venne liberata. Fin dal 1857 riattiva il suo gruppo femminile, mettendolo in diretto collegamento con il comitato mazziniano genovese. Nel 1859 lascia la casa del cugino e si fa più ardita. La spedizione dei Mille ormai si avvicina. Insieme a Beniamino si lancia anima e corpo nella raccolta di fondi e adesioni. E i due scoprono di amarsi. Dopo la breccia di Porta Pia Antonietta fonda a Napoli un Comitato di Donne per l’annessione di Roma al Regno d'Italia. Paolo Emilio Imbriani, eletto sindaco di Napoli, nella sua riforma dell’istruzione, la vuole ispettrice scolastica. E negli anni successivi, con Beniamino intanto diventato assessore all’Istruzione a Napoli, si dedicherà in particolare a sostenere l’educazione delle donne, via primaria per la loro emancipazione. Questi ed altri episodi sulla vita di Antonietta li ha tramandati lo stesso Beniamino in un diario in cui l’innamorato marito narra di come Antonietta le muore tra le braccia, nella villa estiva di Portici, a 76 anni, uccisa da una forte bronchite.

 

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