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DONNE
D’ITALIA |
|
Cecilia
Laschi
|
Un’italiana
ai
vertici
della
robotica |
|
U n
umanoide
su
una
barca
a
vela.
Lei
lo
chiama
il
suo
“sogno”.
Per
di
più
“inutile”.
Però
se a
dirlo
è
Cecilia
Laschi
si
può
ben
pensare
che
diventerà
un
progetto
finanziato
a
livello
internazionale
e
che
segnerà
un
ulteriore
passo
in
avanti
verso
l’ultima
frontiera
della
biorobotica,
la
collaborazione
“intelligente”
delle
macchine
antropomorfe
con
gli
uomini.
E
infatti,
dietro
a
quell’“inutile”,
questa
sorridente
toscana
che
il
mondo
ci
invidia
mette
quel
“ma…”
che
tutti
gli
scienziati
di
razza
si
pongono:
“Inutile,
certo,
ma
dimostrerebbe
che
la
robotica
avrebbe
raggiunto
i
traguardi
che
credo
si
debba
porre
in
questo
momento”.
È lo
stesso
“ma”
che,
a
neanche
20
anni
dalla
laurea
in
informatica
a
Pisa
e ad
un
decennio
dal
dottorato
in
robotica
a
Genova,
l’ha
portata,
a 42
anni,
ai
vertici
della
robotica
mondiale,
unica
donna
(insieme
ad
una
statunitense)
a
figurare,
da
gennaio
e
per
i
prossimi
tre
anni,
nel
sestetto
della
commissione
consultiva
della
Iee
Robotics
and
Automation
Society,
a
fianco
del
giapponese
Toshio
Fukuda,
considerato
il
“guru”
mondiale
dell’automatismo.
I
6mila
membri
dell’associazione
planetaria
degli
ingegneri
elettronici
hanno
scelto
il
suo
nome
per
rappresentare
l’Europa.
Ed è
lo
stesso
“ma”
con
cui
ha
progettato
il
robot
spazzino
Dustclean
che
da
giugno
pulisce
le
strade
medievali
della
pisana
Peccioli
ed è
stato
la
star
dell’Expo
di
Shangai.
Ma
anche
I-Droid,
il
primo
androide
intelligente
a
costo
contenuto
e
venduto
in
dispense,
che
ha
fatto
impazzire
i
giapponesi
ed è
stato
venduto
in
oltre
100mila
esemplari
in
nove
Paesi
del
mondo.
Quello
stesso
“ma”
le
ha
permesso
di
immaginare
ed
ora
realizzare
Octopus,
il
primo
robot
interamente
molle
al
mondo,
finanziato
per
10
milioni
di
dollari
da
Bruxelles.
Tutto
realizzato
senza
“fughe”
all’estero
ma
comunque
lavorando
nei
laboratori
di
quello
che
può
definirsi
il
“Mit”
italiano
- la
Scuola
Superiore
Sant'Anna
-
della
quale
dal
2006
Cecilia
Laschi
è
professore
associato
di
Bioingegneria
industriale.
Nata
a
Piombino,
cresciuta
a
Follonica,
oggi
la
ricercatrice
abita
a
Livorno.
Ed è
proprio
a
Livorno,
nell’acquario
del
Centro
di
Ricerca
per
le
Tecnologie
del
Mare
e la
Robotica
Marina,
sede
distaccata
dal
Polo
di
Pontedera,
che
Cecilia
lavora
alla
realizzazione
di
robot
marini.
A
fare
da
modello
vivente
un
vero
e
proprio
polpo
chiamato
Alfa.
Copiando
il
movimento
di
questo
cefalopode
il
team,
supervisionato
da
Cecilia
Laschi,
sta
ponendo
le
basi
dello
sviluppo
di
robot
ispirati
a
piante
e
animali.
Il
progetto
Octopus
è
stato
ammesso
ai
finanziamenti
europei
con
il
punteggio
di
14
su
15 e
selezionato
tra
quelli
più
innovativi.
Il
robot-polipo
è in
grado
di
infilarsi
in
anfratti
marini
dove
neanche
un
sub
arriverebbe
e
apre
scenari
ancora
più
avanzati:
“Nell’applicazione
di
modelli
neuroscientifici
su
robot
umanoidi
-
spiega
Laschi
- mi
scontravo
con
le
limitazioni
della
struttura
fisica
dei
robot,
tipicamente
basata
su
strutture
rigide,
mentre
i
sistemi
biologici
sono
caratterizzati
da
cedevolezza
e
adattabilità”.
Ecco
quindi
l’entrata
in
scena
della
biologa
marina
Barbara
Mazzolai:
“Il
polpo
ha
rappresentato
per
entrambe
la
sfida
ideale
per
realizzare
robot
di
nuova
generazione”.
Mazzolai
è
un’altra
delle
“regine”
della
Superiore
di
Pisa.
Coetanea
di
Laschi,
figura
anche
al
suo
fianco
tra
gli
inventori
dell’altro
gioiello
della
robotica
pisana:
i
DustBot,
i
robot-netturbini.
|
La
Baronessa
Bandiera
|
Essere
madre
di
due
eroi |
|
Una
copia
ingiallita
del
‘Corriere
dei
Piccoli’,
Anni
Quaranta.
La
sfoglia
una
professoressa
di
scuola
media
alla
ricerca
di
storie
risorgimentali
che
possano
incuriosire
i
suoi
studenti.
Si
ricorda
che,
da
bambina,
l’amato
settimanale
aveva
una
rubrica
intitolata
“Vite
di
donne
all’ombra
dei
grandi”.
Erano
soprattutto
ritratti
di
madri:
c’era
quella
di
Garibaldi,
quella
di
Napoleone.
Ma
anche
quella
dei
fratelli
Emilio
ed
Attilio
Bandiera.
Di
lei,
Anna
Maria
Marsich,
veniva
narrato
solo
un
episodio:
quello
che
la
vede
raggiungere
a
Corfù
i
figli
esuli
e
ribelli
per
implorarli
di
ritornare
a
Venezia
insieme
a
lei,
per
pentirsi
dei
loro
piani
rivoluzionari
e
ricevere
il
promesso
perdono
imperiale,
tornando
a
servire
fedelmente
sotto
l’aquila
austriaca
della
Imperial
Regia
Veneta
Marina
e a
mantenere
loro,
ufficiali
e
baroni,
tutti
i
privilegi
della
propria
casta.
Ma
il
pianto
della
madre
non
riuscirà
ad
infrangere
la
fede
nell’“ora
e
sempre”
mazziniano
del
38enne
Emilio,
alfiere
di
fregata
e
del
29enne
Attilio,
alfiere
di
vascello.
Si
metteranno
a
capo
della
temeraria
spedizione
per
sollevare
il
popolo
del
Regno
delle
due
Sicilie,
12
anni
prima
di
Garibaldi.
Ma
non
in
mille,
in
19.
E le
patriottiche
parole
di
Attilio
Bandiera
– “è
fede
nostra
giovare
l’Italica
libertà
meglio
morti
che
vivi”
- si
avvereranno
davanti
al
plotone
di
esecuzione,
il
25
luglio
1848.
Quello
che
emerge,
così,
è un
drammatico
conflitto
privato
sullo
sfondo
di
quello
epocale
dell’Italia
risorgimentale.
A
rispecchiare
il
tormento
di
tanti
italiani
dell’epoca,
divisi
tra
reazionari
e
rivoluzionari.
In
Thea
Magliozzi,
la
professoressa
di
Gaeta
che
ricorda
l’antica
lettura
sul
‘Corriere
dei
Piccoli’,
il
pensiero
di
quella
madre
solleva
crescenti
interrogativi
che
la
porteranno
a
pubblicare
nel
2006
l’unico
libro
dedicato
a
questa
figura,
rimasta
fino
ad
allora
misconosciuta,
“La
Baronessa.
La
madre
dei
fratelli
Bandiera”.
La
genesi
del
libro
è
affascinante
perché,
improvvisamente,
durante
il
lavoro
di
stesura,
l’autrice
scoprirà
addirittura
di
essere
una
lontana
parentela
della
sua
eroina.
Scoprendo
anche
una
pagina
storica
ignorata
dell’avventura
dei
fratelli
Bandiera:
il
viaggio
in
incognito
che
la
baronessa
fece
a
Cosenza,
dove
i
figli
erano
stati
arrestati
dopo
il
fallito
moto
in C
a l
a b
r i
a ,
per
cercare
di
salvarli
dalla
condanna
a
morte.
“La
scoperta
del
v i
a g
g i
o s
e g
r e
t o
della
baronessa
fu
del
tutto
casuale:
merito
di
mia
madre
che
ascoltava
volentieri
qualche
pagina
man
mano
che
procedevo
nel
mio
lavoro.
Fu
quando
le
lessi
una
breve
lettera
di
Attilio
indirizzata
allo
zio
Raffaele
Del
Giudice,
un
ufficiale
borbonico.
A
quel
nome
lei
m’interruppe
esclamando:
‘Era
un
amico
dei
bisnonni
Vendittis!
Sua
moglie
si
chiamava
Caterina.
Abitavano
a
Napoli
e
venivano
spesso
a
Gaeta.
Una
volta
venne
ospite
anche
una
sorella
di
Caterina
che
viveva
a
Venezia.
Poveretta,
lei
aveva
delle
grosse
preoccupazioni
per
i
figli…’”.
Era
quindi
lei
quella
“poveretta”,
la
baronessa
Marsich,
che
aveva
fatto
tappa
a
Napoli
per
ottenere,
inutilmente,
la
grazia
dalla
Regina
Marina
Teresa,
moglie
di
Ferdinando
II
di
Borbone.
E
quando
inizia
a
scrivere
il
suo
libro,
la
Magliozzi
parte
dal
racconto
del
disperato
viaggio
della
nobildonna
veneziana
verso
l’isola
greca
di
Corfù,
decisa
a
riportare
indietro
i
figli
suoi
e
del
conte
Francesco,
ammiraglio
comandante
della
flotta
austriaca
nel
Mediterraneo,
celebre
per
avere
catturato
un
bastimento
carico
di
profughi.
Di
quel
drammatico
incontro
Thea
Magliozzi
può
farsi
un’idea
leggendo
una
lettera
di
Emilio
a
Mazzini:
“Invano
io
le
dico
che
il
dovere
mi
comanda
di
restar
qui;
che
la
patria
mi è
desiderata,
ma
che,
allorquando
mi
muoverò
per
rivederla,
non
sarà
per
andarmene
a
vivere
di
ignominiosa
vita,
ma a
morire
di
gloriosa
morte;
che
il
salvacondotto
mio
in
Italia
sta
ormai
sulla
punta
della
mia
spada;
che
nessuna
affezione
mi
potrà
strappare
dall'insegna
che
ho
abbracciato,
e
che
l'insegna
d'un
re
si
può
abbandonare,
quella
della
patria
mai.
Mia
madre,
agitata,
accecata
dalla
passione
non
m'intende,
mi
chiama
un
empio,
uno
snaturato,
un
assassino;
e le
sue
lagrime
mi
straziano
il
cuore.
I
suoi
rimproveri,
quantunque
non
meritati,
sono
come
punte
di
un
pugnale;
ma
la
desolazione
non
mi
toglie
il
senno;
io
so
che
quelle
lacrime
e
quello
sdegno
spettano
ai
tiranni;
però,
se
prima
non
ero
animato
che
dal
solo
amor
di
patria,
ora
è
potente
l'odio
che
provo
contro
i
despoti
usurpatori,
che
per
l'infame
ambizione
di
regnare
sull'altrui
patrie
condannano
le
famiglie
a
siffatti
orrori”.
Riannodando
i
sottili
fili
di
una
esistenza
attraverso
una
serie
di
lettere,
la
scrittrice
ricostruisce
così
l’“enorme
conflitto”
che
attanaglia
Anna
Maria
Marsich,
che
sa
che
“queste
ribellioni
sono
destinate
a
finire
nel
nulla.
O
nell'esilio”.
E,
per
la
prima
volta,
apre
una
pagina
inedita
nella
storia
della
tragica
impresa
dei
figli,
scia
di
sangue
dello
sconfitto
moto
calabrese
del
marzo
1844.
Quello
della
madre
che,
prima
in
pena
per
l’editto
di
comparizione
austriaco,
poi
appresa
della
loro
cattura
in
Calabria,
corre
a
Cosenza
solo
in
tempo
per
vederli
condotti
alla
fucilazione,
il
25
luglio
1844.
|
Mina |
La
Barbra
Streisand
italiana |
|
A
marzo
saranno
settantuno
candeline
per
lei,
e
nessun
problema
-
grazie
alla
sua
capacità
pneumatica
-
spegnerle
con
il
soffio
più
intonato
che
conosciamo.
Dal
1978
però
è un
soffio
invisibile,
quello
della
nostra
Salinger
(il
gran
ritirato
della
letteratura,
lo
schivo
della
propria
immagine,
di
cui
circola
sì e
no
una
foto).
Ne
contavamo
un
altro
come
lui
fino
a
qualche
anno
fa
nella
nostra
penisola
canterina,
ed
era
Battisti.
Le
ragioni
di
questi
abbandoni
della
scena
sono
per
lo
più
personali,
e
dunque
impenetrabili,
ma
regalano
un’involontaria
aura
al
ritirato,
non
priva
di
speculazioni:
si
va
dal
musicista
del
“da
quando
ci
sei
tu
tutto
il
resto
non
c’è
più”,
additato
come
uomo
di
destra,
persino
finanziatore
di
gruppi
neofascisti
(cosa
del
tutto
smentita
in
una
della
rare
interviste
rilasciate
a
Renato
Marengo,
in
cui
Battisti
sconfessa
di
essere
di
destra,
e
precisa
la
sua
totale
indifferenza
alla
politica),
alle
varie
dicerie
sulla
Mina
nazionale,
ingrassata
dopo
un
aborto,
dopo
una
bronchite
malcurata,
o
sparita
per
una
montante
intolleranza
verso
i
paparazzi,
che
l’avrebbero
costretta
a
riparare
in
Svizzera.
Non
conta
la
verità
quando
si
ha a
che
fare
col
mito,
e
quando
come
Mina
si è
mito,
non
si
appartiene
più
alla
grammatica
del
rotocalco,
ma
alla
storia.
Come
Lucio,
come
Salinger;
il
mito
parla,
per
così
dire,
solo
con
la
sua
voce.
Un
grandioso
privilegio
per
la
tigre
di
Cremona
(è
il
soprannome
che
le
dà
l’amica
Natalia
Aspesi
e
che
tutti
hanno
adottato,
Mina
era
un
bisillabo
troppo
riduttivo,
evidentemente),
parlare
solo
con
la
voce.
Poteva
venir
su
una
cantante
d’impostazione
classica,
se
avesse
seguito
l’indicazioni
di
nonna
Amelia,
che
da
brava
lirica
le
suggerì
lo
studio
del
pianoforte,
ma
la
cosa
non
attecchì:
Mina
preferiva
la
Bussola
di
Marina
di
Pietrasanta,
luogo
sacro
per
la
canzonetta
di
quei
primi
anni
Sessanta,
che
avrebbe
cambiato
il
corso
della
forma-canzone
italiana
successiva.
E
poi
ognuno
ricorda
i
famigerati
duetti
a
cui
ha
dato
vita
sul
palco
di
Studio
uno,
di
Teatro
10,
e
gli
indimenticabili
binomi:
Mina-Battisti,
Mina-Gaber,
e
poi
Mina-Celentano,
ma
prima
Mina
e
Sordi,
Mina
e
Manfredi,
ed
un
crescendo
di
successo
artistico
accompagnato
dal
potente
amplificatore
della
tv,
che
pure
montava
su
sé
stessa,
e
che
la
porta
ad
essere
una
star
internazionale.
E le
Parole
Parole
Parole
di
Alberto
Lupo,
e il
Se
telefonando
di
Morricone
e
Costanzo,
e
poi?
E
poi
il
buio,
da
quel
1978
di
cui
sopra.
Resta
il
fatto
che
uno
dice
Italia
e
legge:
pizza,
amore
e
Mina.
Una
presenza-assenza
a
cui
da
anni
la
gente
si
rivolge
non
per
farle
i
complimenti
o
per
chiederle
“quando
torni?”,
ma
per
vedere
su
‘Vanity
Fair’
in
che
modo
risponde,
come
fanno
i
direttori,
gli
scrittori,
i
filosofi,
e i
giornalisti,
sulle
varie
problematiche
della
vita.
Un
modo
per
affermare
morettianamente
che
mi
si
nota
di
più
se
non
vengo.
Anche
perché
la
festa
lei
se
la
deve
essere
tirata
sempre
dietro,
portandosela
lì
dove
si
nasconde,
restando
ben
in
mostra.
|
Antonietta
De
Pace |
Passionaria
del
profondo
sud |
|
Rinchiusa
in
uno
stanzino
di
un
metro
quadrato.
Senza
potersi
sdraiare,
lavarsi,
uscire
davanti
al
ghigno
del
commissario
Campagna
che
la
costringe
a
lunghi
interrogatori
per
farle
confessare
di
essere
una
sovversiva.
Ma
lei,
Antonietta
De
Pace,
sa
che
la
polizia
borbonica
non
ha
prove.
I
due
proclami
di
Mazzini
che
si
portava
in
petto
li
ha
appallottolati
e
mangiati
quando,
il
26
agosto
1855,
ha
visto
i
gendarmi
entrare
in
casa
di
Caterina
Valentino,
per
arrestarla.
Loro
sospettano
che
sia
una
delle
tante
affiliate
della
Giovine
Italia.
Invece
lei
ne
è,
nel
Meridione,
uno
degli
ingranaggi
più
importanti.
Da
quando
il
fratello
di
Caterina,
il
mazziniano
Epaminonda
Valentino,
cognato
di
Antonietta,
è
morto
in
carcere
dopo
la
repressione
borbonica
dei
moti
del
’48,
lei
ha
preso
in
mano
tutta
la
rete
cospirativa
che
lui
aveva
intessuto,
da
oltre
un
decennio,
tra
il
Salento
e
Napoli.
A
dare
battaglia
al
suo
fianco
tutta
la
mente
pensante
della
Giovine
Italia
pugliese
che,
solo
un
decennio
prima,
la
guardava
con
sospetto
quando
il
cognato
Epaminonda
la
portava
alle
loro
riunioni
segrete.
Antonietta
sentiva
di
potere
combattere
la
sua
battaglia
contro
le
ingiustizie
sociali
la
cui
necessità
si
era
rivelata
in
lei
a 13
anni,
quando
aveva
conosciuto
la
miseria
dei
contadini
di
Ugento.
Antonietta
vive
da
vicino
la
disperazione
di
questi
derelitti,
inizia
a
studiare
testi
di
legge,
matura
una
coscienza
sociale
che
ora,
nelle
riunioni
segrete
di
Epaminonda,
si
innesta
sulla
sua
tempra
rivoluzionaria,
della
quale
darà
quindi
prova,
a 30
anni,
sulle
barricate
di
Napoli,
accanto
ai
compagni
salentini,
che
negli
anni
hanno
imparato
a
conoscere
la
vera
natura,
indomita
e
battagliera,
che
si
cela
dietro
il
dolce
volto
della
gran
dama.
Malgrado
abbia
visto
come
l’artiglieria
borbonica
abbia
avuto
la
meglio
in
solo
un’ora
sui
rivoltosi
delle
barricate
di
via
Toledo,
Antonietta
non
si
mostrerà
affatto
abbattuta.
E
subito
tornerà
in
Puglia,
comincerà
per
sollevare
la
rivolta
che
scoppierà
poche
settimane
in
terra
d’Otranto,
organizzando
in
prima
persona
il
circolo
patriottico
di
Lecce
con
il
cognato
Epaminonda,
Bonaventura
ed
il
duca
Sigismondo
Castromediano.
Ma
anche
qui
calerà
presto
il
feroce
pugno
della
repressione.
Solo
un
anno
dopo
il
cognato
morirà,
a 38
anni,
tra
le
braccia
di
Castromediano,
in
una
fetida
cella
del
carcere
leccese
dell'Udienza,
invocando
aria,
soffocato
da
una
crisi
cardiaca.
Anche
in
questo
frangente
Antonietta,
sfuggita
all’ondata
di
arresti
nel
Salento,
non
si
dà
per
vinta.
Fingendo
relazioni
sentimentali
e
familiari,
riesce
ad
entrare
nel
carcere
di
Procida
per
ricevere,
insieme
alla
biancheria
di
detenuti
conniventi,
preziose
informazioni
dai
compagni
incarcerati.
Antonietta
scrive
messaggi
cifrati.
Gli
stessi
che
la
polizia
borbonica,
all’epoca
del
suo
arresto,
nel
torrido
agosto
del
1855,
trova
nella
sua
cella
nel
convento
di
San
Paolo,
dove
figura
come
insospettabile
corista.
Viene
quindi
rinchiusa
nel
carcere
di
S.
Maria
ad
Agnone.
Ne
esce
46
volte
per
deporre
al
processo
che
la
vede
imputata
per
cospirazione
repubblicana.
Un
processo
che
fa
epoca.
Quando
l’accusa
chiese
la
condanna
a
morte
il
popolo
gridò
all’infamia,
le
potenze
estere
ritirarono
i
loro
ambasciatori
per
protesta,
lasciando
a
Napoli
solo
agenti
consolari.
Tre
giurati
su
sei
si
pronunciarono
contro
la
condanna
e
Antonietta
venne
liberata.
Fin
dal
1857
riattiva
il
suo
gruppo
femminile,
mettendolo
in
diretto
collegamento
con
il
comitato
mazziniano
genovese.
Nel
1859
lascia
la
casa
del
cugino
e si
fa
più
ardita.
La
spedizione
dei
Mille
ormai
si
avvicina.
Insieme
a
Beniamino
si
lancia
anima
e
corpo
nella
raccolta
di
fondi
e
adesioni.
E i
due
scoprono
di
amarsi.
Dopo
la
breccia
di
Porta
Pia
Antonietta
fonda
a
Napoli
un
Comitato
di
Donne
per
l’annessione
di
Roma
al
Regno
d'Italia.
Paolo
Emilio
Imbriani,
eletto
sindaco
di
Napoli,
nella
sua
riforma
dell’istruzione,
la
vuole
ispettrice
scolastica.
E
negli
anni
successivi,
con
Beniamino
intanto
diventato
assessore
all’Istruzione
a
Napoli,
si
dedicherà
in
particolare
a
sostenere
l’educazione
delle
donne,
via
primaria
per
la
loro
emancipazione.
Questi
ed
altri
episodi
sulla
vita
di
Antonietta
li
ha
tramandati
lo
stesso
Beniamino
in
un
diario
in
cui
l’innamorato
marito
narra
di
come
Antonietta
le
muore
tra
le
braccia,
nella
villa
estiva
di
Portici,
a 76
anni,
uccisa
da
una
forte
bronchite.
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